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Debito pubblico oltre 2.300 miliardi e l'Italia è sulla strada dell'autarchia finanziaria

Debito pubblico oltre 2.300 miliardi e l’Italia è sulla strada dell’autarchia finanziaria

Debito pubblico italiano oltre quota 2.300 miliardi di euro a marzo. E la BCE sta per concludere gli acquisti di titoli di stato. I bond in mano agli stranieri sono meno di un terzo.

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Debito pubblico italiano oltre quota 2.300 miliardi di euro a marzo. E la BCE sta per concludere gli acquisti di titoli di stato. I bond in mano agli stranieri sono meno di un terzo.

Il debito pubblico italiano a marzo è salito di 15,9 miliardi a 2.302,3 miliardi di euro, attestandosi poco sotto rispetto al record storico di 2.308 miliardi del luglio 2017. Lo ha evidenziato stamane il Supplemento finanziario al Bollettino statistico della Banca d’Italia. L’incremento è stato dovuto al fabbisogno delle amministrazioni pubbliche per 20,1 miliardi, solo parzialmente compensato dalla riduzione delle disponibilità liquide del Tesoro di 3,5 miliardi a 44,8 miliardi (erano a 54,6 miliardi nel marzo 2017).

Superata ancora una volta, dunque, la soglia psicologica dei 2.300 miliardi, pesante eredità per il governo che verrà. Nei primi 3 mesi dell’anno, il debito pubblico tricolore risulta così aumentato di 46,2 miliardi, più dei 42,6 miliardi di incremento registrato nel primo trimestre del 2017, anche se il fabbisogno mensile si è attestato perfettamente in linea con i livelli del marzo dello scorso anno.

Sul nostro indebitamento restano accesi i fari della Commissione europea, intenzionata a capire quale direzione voglia imprimere ai conti pubblici l’esecutivo che sta per nascere a Roma, retto da due formazioni – Lega e Movimento 5 Stelle – che segnalano minore attenzione dei predecessori per i target fiscali, quando già non è che abbiano brillato i governi degli ultimi anni con riferimento alla loro capacità di stabilizzare il rapporto tra debito e pil, chiuso nel 2017 al 131,8%.

Il debito pubblico con la bassa inflazione allarma di più, ecco perché

E alla fine del 2017, la quota di debito in mano agli investitori stranieri risultava attestarsi al 32% del totale, una percentuale alquanto bassa e praticamente stabile da anni. Nel 2010, toccava l’apice del 52%, con ciò suggerendo che oltre la metà dei nostri titoli di stato emessi erano finiti all’estero. Facendo qualche calcolo, si trova che da allora non si è ridotta solamente la percentuale, bensì pure l’ammontare in valore assoluto del debito pubblico italiano nelle mani degli investitori stranieri ed esattamente di quasi 240 miliardi. Una fuga di capitali, che risulterebbe maggiormente accentuata, se si tenesse conto che nel frattempo la BCE abbia acquistato titoli di stato per complessivi circa 260 miliardi in 3 anni, tramite il “quantitative easing”. In sostanza, ad essersi liberati dei nostri bond sono stati quasi esclusivamente gli investitori stranieri.

Debito scarsamente presente all’estero

Al dicembre scorso, le famiglie italiane risultavano in possesso di poco più del 5% del debito, Bankitalia deteneva una quota del 15,4% (sempre per effetto del QE, i cui acquisti sono realizzati tecnicamente dalle banche centrali nazionali per l’80%), il sistema bancario finanziario possedeva un altro 27,2% e il 20% era in mano a fondi e assicurazioni. Come detto, appena il 32% risultava in mano a entità straniere. Tenendo conto che la BCE per allora dovrebbe avere acquistato direttamente titoli di stato italiani per una cinquantina di miliardi e che formalmente l’istituto viene annoverato tra gli investitori stranieri, troviamo che la quota realmente in possesso di fondi, banche e altre istituzioni finanziarie private estere sarebbe effettivamente inferiore al 30%.

Debito pubblico italiano, perché dopo Draghi rischia di esplodere

Poco debito collocato all’estero può assumere un duplice significato: negativo, perché segnala lo scarso interesse dei capitali stranieri per il nostro mercato dei bond sovrani, evidentemente a causa della sfiducia diffusasi dal 2010 in poi sulla sostenibilità delle nostre finanze pubbliche; positivo, perché rende l’Italia relativamente poco esposta ai creditori stranieri, cosa che agevolerebbe eventuali forme di ristrutturazione del debito, compresa l’ipotesi di un’uscita dall’euro. Sinora abbiamo quasi non percepito la fuga dei capitali, tranne che nel terribile biennio 2011-’12 della crisi dello spread, grazie agli acquisti realizzati dalla BCE, seppur dimezzati a partire da gennaio. Tuttavia, atteso un deficit fiscale per meno di 30 miliardi quest’anno, gli acquisti dell’istituto risulteranno superiori, quand’anche venissero realizzati solo fino al settembre prossimo, data annunciata per la fine del programma di allentamento monetario.

Una svolta autarchica involontaria

In sostanza, negli ultimi anni la BCE ha finanziato più che totalmente nette di debito italiano, mentre ciò non sarà più così dal prossimo anno, quando i nostri bond dovranno ricominciare a confrontarsi con la domanda reale sul mercato. A quel punto, i rendimenti torneranno a misurare le preferenze degli investitori e difficilmente resteranno stabili.

Come abbiamo immaginato in un articolo precedente, nel caso di esplosione di una nuova crisi finanziaria, determinante si rivelerebbe proprio la BCE, che dietro condizioni precise sottoscritte dal nostro governo potrebbe continuare ad acquistare BTp. Una soluzione, che sarebbe solo l’antipasto di una ristrutturazione del nostro debito sovrano e che passerebbe proprio per una svolta “autarchica” già in corso sul piano finanziario, se è vero che in pochi anni abbiamo quasi dimezzato la percentuale dei bond in mano a investitori non italiani, pur non per nostra volontà, quanto per la fuga dei capitali sulle tensioni relative all’Eurozona e specificamente al nostro debito.

E se il debito pubblico italiano se lo comprasse la BCE anche dopo il QE?

Poiché ogni anno giungono a scadenza circa 250 miliardi di euro di titoli, a cui si aggiungono le emissioni di BoT per altri 150 miliardi, pensare che il solo mercato domestico possa risultare sufficiente per assorbire tanta carta appare utopistico, a meno di non immaginare che i rendimenti salgano così tanto da allettare le famiglie come negli anni Ottanta e Novanta. E le banche italiane, anziché dare ascolto ai moniti europei, dovrebbero continuare a comprare titoli tricolori, rafforzando e non allentando il legame con il bilancio statale. Sarebbe la fine della nostra permanenza nell’Eurozona, tra conti pubblici in subbuglio e pratiche bancarie del tutto disallineate rispetto agli obiettivi

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